(AGENPARL) – gio 07 marzo 2024 RICONOSCIMENTO INTERNAZIONALE SANTA RITA 2024
CRISTINA FAZZI
Cristina Fazzi, medico di Enna (Sicilia), crea vita e futuro per i poveri e i giovani nello Zambia.
Fin da bambina, accompagnando suo padre dottore a visitare gli ammalati nell’entroterra povero
della Sicilia degli anni settanta, sceglie la professione medica, con la volontà di mettersi al
servizio dell’altro, con umiltà e rispetto, non predicando il Vangelo ma mettendolo in pratica,
come suo padre. Per lei questo vuol dire missione: non una condizione geografica, ma una
dimensione interiore per cui ognuno può essere missionario ovunque si trova. Ma l’Africa la stava
già chiamando, anche se lei non lo sapeva ancora. Dopo anni di professione in Italia, si offre di
sostituire una sua cara collega missionaria nello Zambia: dovevano essere sei mesi che sono
diventati 24 anni. Oggi, Cristina è a casa lì e per la popolazione locale, che sente famiglia, nutre
amore, quell’amore che ti fa agire per il bene e la giustizia, che mette in pratica attraverso la
sua dell’Associazione Umanitaria “Twafwane”. Lo stesso amore che la collega all’esempio di
Santa Rita e che l’ha portata recentemente a legarsi alla Pia Unione di Enna.
“Qui i bambini sono gli ultimi fra gli ultimi”
“Non possiamo salvare tutti ma non possiamo per questo deresponsabilizzarci. Se anche i miei
24 anni in Zambia fossero serviti a salvare una sola vita, sarebbero stati 24 anni ben spesi.
L’unicità della vita è fondamentale, ecco perché con la clinica mobile facciamo anche 4 ore di
macchina per vaccinare solo 10 bambini. Se riusciamo a migliorare anche solo la vita di chi
incontriamo, abbiamo fatto la nostra parte”. A parlare è Cristina Fazzi, un medico di origine
siciliane che da oltre 20 anni mette la sua professionalità, la sua disponibilità e la sua
testardaggine (parola sua) a servizio dei più poveri tra i poveri, in Zambia, nell’Africa
meridionale. Attraverso la ONG che ha fondato, Cristina opera “insieme ai collaboratori e ai tanti
che ci sostengono, ché da soli non si va da nessuna parte” – dice – attraverso due grandi progetti,
il Mayo-Mwana (che significa Madre-Bambino) e l’Ishuko (Opportunità), per realizzare servizi
sanitari, sostegno scolastico e formazione. Lo fa facendo il medico, amministrando i progetti e
rispondendo ai bisogni della popolazione perché, afferma Cristina, “vivendo con la gente ti rendi
conto delle cose che servono; altrimenti corriamo il rischio di aiutare gli altri secondo quelli che
noi pensiamo siano i loro bisogni”. Cristina è anche una mamma, di un ragazzo adottato e di
altri 7 che ha preso in affido, dimostrando sia che il suo spirito missionario va ben oltre il camice
bianco, sia che i bambini hanno un posto speciale nella sua vita. “Perché – ci spiega – qui i
bambini, un po’ come le donne, sono gli ultimi fra gli ultimi; un fardello, bocche da sfamare che
non portano a casa nulla. Se un adulto e un bambino stanno male, la priorità nel portarlo in
ospedale o comprare un farmaco va all’adulto”. E aggiunge: “nella condizione sociale in cui
vivono, gli adulti, che sono spesso stati bambini maltrattati, sfruttati, abusati e hanno conosciuto
le mani come unico mezzo di educazione, hanno difficoltà a comportarsi in maniera diversa con
i figli”. Così, arriva anche il progetto Ishuko, che sposta l’aiuto ai minori su un piano del tutto
nuovo per il Paese, quello della patologia psichiatrica, per cui non ci sono strutture destinate ai
minori in Zambia. “In un’area così povera dove ci sono molti abusi e sfruttamento di minori e in
cui i ragazzi hanno problematiche poiché vivono nella povertà, non possono andare a scuola
perché costa, sono costretti ad andare a lavorare ma non c’è lavoro, la frustrazione che si vive
è molto alta. Avere qualcuno che come noi apre le porte, che dice ‘venite qua, parliamone’ è
molto importante, perché i giovani hanno bisogno di essere ascoltati. E questo vale non solo in
Zambia, ma anche in Occidente. Tornare all’ascolto è una chiave fondamentale nel caso di un
progetto che vuole dare un’opportunità di cambiamento e realizzazione anche a chi ha dei disagi
mentali e psichici” – chiosa Cristina, spiegando che lo scorso anno hanno incontrato oltre 500
giovani. A gratificare Cristina sono le persone che la cercano anche per problemi non di sua
competenza; quando le dicono “ora puoi andare, sappiamo fare da soli”; quando – dice lei “vedo le persone che ho aiutato felici”. Una donna, Cristina, che trae ispirazione anche da Santa
Rita, di cui apprezza il lato umano in cui tutti possiamo riconoscerci e la sua capacità di
perdonare.
VIRGINIA CAMPANILE
Virginia Campanile, che vive a Otranto (Lecce). La sua è la storia di un percorso di dolore,
perdono, ascolto e cura degli altri, che inizia quando il 15 Giugno del 1998, per un incidente
stradale viene a mancare suo figlio Daniele di 22 anni. La tragica notizia arriva in famiglia e
anche la mamma di Virginia, dopo solo pochi minuti, vola in cielo. Da subito, pur se tutto crolla,
l’unico pensiero di Virginia è trovare altre mamme col suo stesso dolore che, scopre, spesso si
chiudono in casa, come fosse una colpa perdere un figlio. Lei non ci sta e vuole trasformare il
dolore in un investimento nel sociale. Inizia a piccoli passi e, condividendo, riunisce madri
ammalate dal dolore, formando il primo gruppo e dopo poco tempo, altri gruppi nei paesi vicini.
Contemporaneamente, ispirandosi a Santa Rita che ama e prega da sempre, imbocca la strada
del perdono decidendo di incontrare e perdonare, appunto, la ragazza responsabile della morte
di suo figlio. Libera dal dolore e chiamata a una vocazione d’amore per gli altri, fonda
l’Associazione “FIGLI IN PARADISO”, ali tra cielo e terra, ODV, con la quale si dedica a tempo
piano a genitori feriti e tanti ragazzi in difficoltà.
Una ‘mamma’ per tanti genitori e giovani
“Quando si diventa mamme non si smette più di esserlo”. Me lo ha detto alcuni anni fa una
monaca agostiniana del monastero di Cascia. Questa espressione l’ho trovata di una sensibilità
incredibile, tant’è che mi è rimasta nel cuore e quando ho ascoltato la storia di Virginia
Campanile, mi è tornata alla mente.
Virginia è la mamma di Daniele e Luigi. Daniele è morto a causa di un incidente stradale,
provocato da una ragazza che guidava sotto l’effetto di sostanze. Dopo la perdita di suo figlio,
Virginia ha voluto fare quello che lei stessa definisce “un investimento d’amore”. “Non volevo
ammalarmi di dolore e allora ho continuato a vivere per i vivi, altrimenti la mia fede a che cosa
sarebbe servita?”. Virginia coltiva la fede sin da bambina. Nella sua famiglia c’era la devozione
a Sant’Antonio e Santa Rita e quando la disperazione per la morte di Daniele e della mamma,
avvenute a solo mezz’ora di distanza l’una dall’altra, le hanno fatto gridare “Signore, perché a
me?”, un secondo dopo la fede le ha risposto “Perché non a me? Io chi sono?”.
Da quell’istante, 25 anni fa, è cominciato un cammino non ancora concluso, fatto di un groviglio
di sentimenti ed emozioni: rabbia, rancore, ma anche pause, tempi sospesi, e poi traguardi,
silenzi, ascolto di storie di genitori che hanno avuto la sua stessa esperienza. Migliaia di mamme
e papà che Virginia ascolta per aiutarli a attraversare il lutto. “La parola condivisione, oggi, è
quasi scontata. Venticinque anni fa non era così” – ricorda Virginia. “Fui io a bussare alla porta
di una mamma come me, Anna. A seguire diventammo 3, e poi 4, 5. Da qui, cominciarono a
nascere i primi gruppi di genitori che avevano perso i figli, nella mia zona, il Salento. E così,
l’intuizione di creare l’associazione Figli in Paradiso, ali tra cielo e terra – ODV (oggi gestisce 120
gruppi in diverse regioni dell’Italia centrale e meridionale e in Spagna, ndr). Decisi di chiudere,
dopo 40 anni di proficua attività, la mia gioielleria, per rinascere a nuova vita, per ‘indossare un
nuovo cappotto’!!”.
Con questa associazione, Virginia ha fatto tanto del bene. A quel dolore che lei descrive come
“inconsolabile, ingestibile, inguaribile”, tenta di dare un’alternativa. Insomma, alla morte tenta
di dare vita, guardando al futuro, prendendosi cura degli altri, di chi è rimasto: genitori, fratelli,
sorelle, e giovani. Se con l’associazione, infatti, ha fatto costruire una scuola in Africa, tre pozzi
in Etiopia e contribuito con tantissimi aiuti al reparto neonatale dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce,
con il Centro Servizi Volontariato, del quale fa parte da 13 anni, si occupa dei giovani e ai ragazzi
del IV e V anno racconta – dice – “il libro della mia vita”. “La prima causa di morte tra i giovani
oggi è il suicidio. È per questo che mi è stato chiesto di creare un progetto di prevenzione al
suicidio per aiutare i ragazzi a superare quello che chiamo il male di vivere. Vado nelle scuole,
incontro i giovani”.
Dopo aver compattato la sua famiglia e dopo essersi resa “una donna libera”, perdonando la
ragazza che le ha tolto suo figlio, Virginia continua a essere mamma e si fa mamma per tanti
genitori e giovani in difficoltà, con la sua risolutezza, il suo bel carattere e il suo diamante più
preziosa, la fede.
ANNA JABBOUR
Ad Anna Jabbour la guerra ha cancellato il passato ma non il desiderio di un futuro di fratellanza.
Nata ad Aleppo (Siria), Anna ha 35 anni ed è cristiana cattolica. Sposata con Subhi Assafo,
conduce una vita tranquilla ad Aleppo, tra famiglia, lavoro, amici e parrocchia. Poi, nel 2011, la
guerra inizia a spazzare via tutti i loro sogni. Anna e Subhi restano e resistono fino al 2016,
uscendo di casa senza sapere se sarebbero tornati, vedendo morire vicini e amici, vivendo un
incubo. Ma, Anna custodisce qualcosa di più potente, la vita: è incinta di una bambina, Pamela,
che nasce sotto le bombe ad aprile 2016. Da genitori, per proteggere il dono che Dio aveva fatto
loro, decidono di lasciare la Sirina e da sfollati si recano prima sulla costa e poi in Libano. Qui
restano per diversi anni, pur non trovando mai vera accoglienza e integrazione, in un Paese
fortemente instabile e in crisi. Infatti, sognano un futuro diverso in pace e serenità. Lo realizzano,
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