[lid] – «Castigat ridendo mores» cioè «corregge i costumi col ridere» è una locuzione composta dal poeta francese neolatino Jean de Santeul (1630-1697) per il busto d’Arlecchino che doveva decorare il proscenio della Comédie Italienne a Parigi. Una frase che si ripete talora riferendola a persona che sa ammonire senza che nelle sue parole si senta il rimprovero.
Nella storia dell’umanità gli ‘scrocconi’ sono sempre esistiti.
Immaginiamo gli uomini dell’età della pietra, c’erano quelli che andavano a caccia rischiando a volte anche la vita, mentre c’erano altri che si presentavano all’ingresso della caverna all’ora dei pasti. Chissà se qualche cavernicolo ‘indignato’ con la Z non aveva dato qualche clavata sulle gengive allo ‘scroccone’ di turno anziché farlo accomodare e cedergli un pezzo di selvaggina. Sicuramente con l’andare del tempo questi soggetti hanno trovato un modo per giustificare la loro assenza dalle battute di caccia e la loro presenza invece a tavola. Iniziò quindi l’epoca del diritto alla ‘ciotola’ a scrocco. C’era chi si fingeva stregone, chi era bravo a raccontare frottole e chi piaceva invece starle a sentire attorno al fuoco la sera prima di andare a dormire.
Nel corso dei secoli il sistema si è talmente evoluto bene che chi racconta le fandonie se la passa molto meglio di chi lavora e questo vale soprattutto in Italia dove i professionisti delle chiacchiere sono accolti con i tappeti rossi nelle trasmissioni. Ovviamente, come spesso accade in questo strano Paese, i più bravi tra i ‘venditori di fumo’ sono riusciti a far carriera, anche nella politica e a occupare posti di primissimo piano nei vari Governi che si sono succeduti nel tempo.
«La ragione, illuminando gli uomini, li preserverà dalla demagogia» scriveva Jacques Pierre Brissot de Warville nel 1791, politico e giornalista francese leader dei girondini. Ovviamente è morto ghigliottinato durante il Terrore due anni dopo.
Oggi vince chi ha la parlantina, cioè chi comunica e da spettacolo meglio degli altri, magari facendo anche polemica. Il problema vero è che i demagoghi come i ciarlatani sono più o meno momentanei mentre i loro danni sono eterni.
Basta accendere la televisione o la radio per ascoltare gli interminabili bla-bla-bla. Bisogna parlare, raccontare in continuazione, fare dichiarazioni a raffica e indire conferenze stampa per perorare con vari punti di vista che quello che si dice è la verità.
Nell’antica Roma c’erano i tribuni mentre in Italia assistiamo alla nascita di una nuova categoria: quella degli urlatori.
Un discorso a parte merita quei pochi soggetti che accatastano la legna, come faceva Gasperino il Carbonaro, per poi utilizzarla al momento opportuno, puntualizzando e ribattendo le argomentazioni finora enunciate con la verità dei fatti.
Viene in mente la celebre battuta di Luigi Barzini «il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi; ma… è sempre meglio che lavorare». Resta che nell’immaginario collettivo i giornalisti sono visti come una categoria privilegiata e potente.
Davvero il giornalismo si è ‘piegato’ al potere? I giornalisti hanno voltato le spalle all’etica professionale e al pubblico e si sono specializzati nella cura dei propri interessi?
Immagino che sia diventato molto difficile andare a cercare le notizie all’esterno, magari al caldo o peggio sotto la pioggia, mentre è preferibile stare seduti comodamente in redazione con tanto di aria condizionata.
Capisco soprattutto le difficoltà a scrivere articoli di informazione critica quando è più semplice partecipare, volentieri, di corsa e a ranghi serrati, agli inviti e alle conferenze stampa con relative colazioni light lunch/dinner.
E’ chiaro che sono molto meglio le festicciole a sbafo, i regalini che arrivano a Natale da poter poi sfoggiare come ‘potenza’ o riciclarli a parenti e amici: in pratica il giro di piccola economia sommersa di basso cabotaggio generata dai benefit.
Davvero oggi il giornalista è diventato uno vero e proprio specialista nell’arte di arrangiarsi, tra pasti a ufo, inviti ad anteprime, cadeau e pseudo vita glamour, avendo sempre intorno chi lo tratta con quel finto rispetto a seconda di quanto può ricevere in termini di pubblicità camuffata da notizia? Mi auguro proprio di no.
Nel frattempo le notizie spariscono, non ci sono più articoli di critica e tutto questo è sostituito dalla chiacchiera, dal gossip e dalla ormai famosa ‘supercazzola’ della futilità artificiosamente elevata al rango di dignità di analisi sociale con tanto di dati ‘statistici’ magari divisi per i vari comuni dell’Umbria.
Il mio relatore della tesi in economia politica della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università «La Sapienza», nonchè direttore del dipartimento di economia, spesso soleva affermare: «gli statistici riescono a dire le fregnacce con precisione mentre gli economisti le dicono con autorevolezza».
Il presente lavoro non vuole essere solo rivolto agli addetti ai lavori (forse in questo caso sarebbe più opportuno e corretto scrivere ai livori), ma a chi è curioso di leggere la vicenda della chiusura del Giornale dell’Umbria che finora non è stata mai raccontata.
Un lavoro che vuole anche essere soprattutto da monito per quanti si avvicinano alla professione di giornalista che è la più bella al mondo se è svolta con serietà e competenza.
Penso che i giornalisti ‘a sbafo’ prima o poi diventeranno solo produttori d’informazione a soffietto, docili come cagnolini, pronti come un jukebox, dove basta inserire una monetina o un regalo per far partire la canzoncina richiesta.
Anzi, spesso il motivetto della canzone parte addirittura da solo come riflesso condizionato a forza di essere proni, sempre nell’illusione di contare qualcosa.
Dico questo perché mi è capitato di assistere, purtroppo, ad una scena impietosa: un giornalista era al telefono in redazione e il suo interlocutore lo ‘redarguiva’ pesantemente. Sembrava di vedere la telefonata di Fantozzi con il suo grande capo.
Una situazione davvero imbarazzante, dove mi sono vergognato per lui di quanto stava accadendo.
Questo non vuol dire procedure a ranghi serrati nella direzione di Tomás de Torquemada, il grande Inquisitore, ma almeno i giornalisti tornino a fare le inchieste, ci guadagna il Paese, ma anche i lettori che saranno contenti di andare in edicola ad acquistare un prodotto di alta qualità. Solo in questo modo avremo una stampa libera e meno soporifera o peggio ‘marchettara’ che fa finta che tutto vada bene mentre poi scoppiano gli scandali. I giornalisti così cadono tutti dal pero o peggio iniziano a calare l’ondata d’indignazione, quando il giorno prima avevano fatto la politica dello struzzo e si erano voltati dall’altra parte per non guardare quanto stava accadendo.
Ricapitolando, ci sono vari tipi di giornalista che va da quello a soffietto, ossequioso, demagogo, megafono, partigiano fino ad arrivare a quello silenziatore.
È una categoria che dovrebbe riflettere seriamente sul significato della professione. Una riflessione che va fatta con un animo sereno, senza far prevalere la parte narcisista e opportunista e senza scambiare vanità per ambizione.
Indro Montanelli soleva affermare la «deontologia professionale del giornalista sta racchiusa in gran parte, se non per intero, in questa semplice e difficile parola: Onestà. È una parola che non evita gli errori: essi fanno parte del nostro lavoro, Perché è un lavoro che nasce dall’immediato e che dà i suoi risultati a tambur battente. Ma evita le distorsioni maliziose quando non addirittura malvage, le furbe strumentalizzazioni, gli asservimenti e le discipline di fazione o di clan di partito. Gli onesti sono refrattari alle opinioni di schieramento – che prescindono da ogni valutazione personale – alle pressioni autorevoli, alle mobilitazioni ideologiche. Non è che siano indifferenti all’ideologia, e insensibili alla necessità, in determinati momenti, di scegliere con chi e contro chi stare. Ma queste considerazioni non prevalgono mai sulla propria autonomia di giudizio. Un giornalista che si attenga a questa regoletta in apparenza facile potrà senza dubbio sbagliare. Ma da galantuomo. Gli sbagli generosi devono essere riparati, ma non macchiano chi li ha compiuti. Sono gli altri, gli sbagli del servilismo e del carrierismo – che poi sbagli non sono, ma intenzionali stilettate – quelli che sporcano».
La conclusione sembrerebbe amara: ogni nazione ha la classe politica e i giornalisti che si merita.
Questo non vuol dire puntare il dito contro tutti e passare come un nuovo Savonarola. Si tratta solo di capire se c’è ancora la voglia di far tornare a rendere dignitosa una professione che purtroppo si è coperta di ridicolo, perdendo di credibilità e facendo scappare i lettori e relegando al 46esimo posto l’Italia sulla libertà di stampa.
«La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle» come affermava Sant’Agostino.
Ecco perché ho voluto scrivere il libro «Un direttore calunniato, la vicenda del Giornale dell’Umbria», a distanza di tre anni dalla vicenda e che ora pubblico a puntate.
Il motivo è molto semplice.
Finora è stata data voce e spazio solo ad una ‘parte’ in questione, ora è giunto il momento di sentire l’altra campana sulle motivazioni che hanno portato alla chiusura del Giornale dell’Umbria.
Anch’io ho il diritto (inviolabile) alla difesa e ho il diritto di critica (costituzionalmente tutelato).
Ora senza scomodare Buddha citando la frase famosa «tre cose non possono essere nascoste a lungo: il sole, la luna e la verità», il tempo porta sempre alla luce le cose nascoste.
Ed è di questi accadimenti che vorrei raccontare, documenti alla mano, senza tediare troppo l’attento lettore sulla vera storia che ha portato la chiusura del Giornale dell’Umbria.

Con la speranza di essere letto fino in fondo (anche a puntate).